“Repubblica – Palermo”16.9.2016
IL PRETE E LA COPPIA LESBICA IN CHIESA
Quando, tre o quattro anni fa, il pastore valdese Alessandro Esposito ha celebrato le prime nozze in Italia di due donne omosessuali a Trapani, ero intenzionalmente presente all’avvenimento. Domenica 4 settembre, invece, mi trovavo quasi per caso alla celebrazione eucaristica del mio fraterno amico don Cosimo Scordato nel corso della quale il Rettore della Chiesa di S. Francesco Saverio all’Albergheria ha presentato alla comunità Elisabetta e Serenella e ha invitato a pregare per il loro amore, in vista delle nozze civili che sarebbero state officiate dal sindaco Leoluca Orlando, riscuotendo per le due ‘fidanzate’ un lungo e caloroso applauso. E’ stato interessante, per me, ascoltare qua e là qualche commento dei fedeli presenti. A una signora che mi ha chiesto se adesso i preti potevano “sposare” anche le coppie omosessuali ho spiegato che da sempre - secondo il catechismo della Chiesa cattolica – il prete non “sposa” nessuno: la teologia ufficiale insegna che il sacramento del matrimonio è l’unico dei sette canonici a non avere per ministro un sacerdote o un vescovo, bensì gli sposi stessi. Dunque, anche nei matrimoni più tradizionali, il prete è solo un testimone ufficiale di un rito i cui protagonisti sono l’uomo e la donna. Come mai questa eccezione rispetto al clerico-centrismo degli altri sacramenti (almeno in via ordinaria: il battesimo può essere amministrato, in casi di emergenza, anche da un laico – e persino da un ateo)? La ragione è tanto semplice quanto sconosciuta ai più. Per i primi mille anni del cristianesimo non è esistito un sacramento del matrimonio. Ogni coppia si sposava secondo i riti e le consuetudini civili della propria etnia. Poi, pian piano, si propagò l’abitudine di passare, dopo il rito civile, da una chiesa per chiedere la benedizione religiosa: intorno al XII – XIII secolo la Chiesa stabilì che il momento religioso precedesse la celebrazione laica. Poi che la sostituisse se si voleva un matrimonio valido agli occhi di Dio. La festa in chiesa, da suggello di un matrimonio già celebrato, diventò unica condizione per celebrarlo. Oggi, sappiamo, molte persone sono tornate volontariamente al rito civile. O perché non credono nella valenza religiosa del matrimonio o – caso meno frequente, ma non rarissimo – perché sono talmente cristiane da non volere ibride contaminazioni della sfera intima con la sfera burocratica: in questi casi la coppia credente chiede la preghiera della comunità cattolica di appartenenza o prima o dopo il proprio matrimonio civile. Il caso di Elisabetta e Serenella rientra, dunque, in questa tipologia: non perché abbiano scelto liberamente il solo rito civile, ma perché la legislazione ecclesiastica non ha consentito loro alternative. Don Cosimo Scordato, in linea con papa Francesco ma più radicalmente con il proprio stile di sempre, non ha dunque compiuto nulla di particolarmente trasgressivo: ha accolto , come non poteva non fare, il desiderio di due credenti di essere sostenute dalla preghiera della comunità alla vigilia di un passo rilevante della propria vita. Certo, gesti come questi sono indicativi della maturazione della coscienza cattolica media che, sempre più, impara a vedere nelle unioni ufficiali fra persone omosessuali non una minaccia per l’istituto matrimoniale ma, se mai, un ulteriore riconoscimento del suo valore oggettivo, sociale, culturale. Per questo, all’osservazione di un signore presente a messa (“Ma don Scordato non obbedisce ai dettami della Chiesa?”), mi è stato spontaneo rispondere divertito: “Al contrario. Mi pare che obbedisca non solo ai dettami attuali ma, persino, in anticipo, ai dettami futuri!”.
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